Riportiamo l’interessante racconto del giornalista Sigismondo Nastri: “Il vecchio carnevale amalfitano e la canzone di Zeza”.
Tra i ricordi amalfitani di un tempo che si fa sempre più lontano c’è il singolare e pittoresco funerale del Carnevale, condotto in ‘processione’ in una cassa da morto scoperchiata mentre divorava spaghetti prendendoli con le mani da un pitale. Ci divertivamo da matti. Il “rito” – che ha avuto a protagonisti due mitici personaggi: Burdello e ‘o Caporale – era strettamente legato alla Canzone di Zeza, che veniva cantata agli angoli delle vie. Con Vicenzella che faceva l’occhio languido a Don Nicola: “Oi mamma mà’ che veco! / Nn’ è chillo Don Nicola? / Mò proprio sarrà asciuto dalla scola! / Si chillo me vulesse, / io me lo spusarrìa / e cchiù sotto de tata [cioè, il padre] nun starrìa”. E questi che confessava di aver perso la testa per la ragazza: “… Pe’ chesta faccia bella / nun trovo cchiù arricietto, / de lacreme aggio ‘nfuso tutto lu lietto, / aggio pisciat’ ‘o lietto!”. Intanto Zeza faceva la voce grossa al marito: “Sì pazzo si te cride / c’aggio ‘a tené ‘nzerrata / chella povera figlia sfurtunata! / La voglio fà scialare / cu ciento nnammurate / cu prievete, signure e cu li surdate / pure cu ‘e surdate!”. Il povero Pulcinella, costretto alla fine a dare il suo assenso al matrimonio, commentava amaramente: “Gnorsì songo contento, / maie cchiù io na parola / m’ hanna cecà si ‘a dico a don Nicola!…. / Ma vuie signori mieie / nun ve ‘nzurate maie, / pecché cu na mogliera passate nu guaio!… / Passate nu guaio!”.
Ricordo che l’amico Salvatore D’Amato, attento cultore di storia e tradizioni del territorio amalfitano, dopo aver raccolto la testimonianza di un protagonista (Quirino D’Amato), scrisse (sul Foglio Costa d’Amalfi, febbraio 2000) che “la rappresentazione aveva inizio di sera, all’imbrunire, nella Piazza dello Spirito Santo, seguendo un percorso abituale contrassegnato da vigorose soste nelle varie osterie che si incontravano lungo la strada, e si portava a Piazza Flavio Gioia dove si concludeva con un’allegra quadriglia. La gente, sempre entusiasta, seguiva divertita ed attenta, formando nutriti turnielli, le scene a soggetto di Nicola Treglia (per molti anni l’esile e graziosa Zita – la figlia – detta anche Vicenzella), Vincenzo Livano (don Nicola), Emilio Proto (il padre – Pulcinella), Alfonso Cretella (Zeza – la madre), sostituiti, in seguito, alcuni di essi, da Giacomino e Antonio Milano e da Quirino D’Amato”.
Sul sito del Museo Nazionale delle Arti e delle Tradizioni Popolari si legge: “Il nome di Zeza è il diminutivo di Lucrezia, tipico nome nobiliare molto diffuso a Napoli fin dal 1400, ma nella rappresentazione Zeza è una contadina che, proprio per il rovesciamento dei ruoli ammesso durante il Carnevale, ha un nome appartenente a una classe sociale diversa dalla sua. E’ comunque una intrigante e ruffiana, che fa in modo che la figlia si incontri e scambi la promessa di nozze con il pretendente, don Nicola Pacchesicco nella tradizione orale, e Tolle nella tradizione scritta. Don Nicola si presenta vestito di nero, con un libro in mano, dichiarandosi a volte abate e a volte studente in legge o dottore. Dal punto di vista storico Don Nicola esprime come studente una condizione di emarginazione che durò fino al 1800, ma rappresenta anche colui che sa scrivere e sa leggere. La maschera di dottore è tipica nelle mascherate del Carnevale perché, nel rovesciamento dei valori, dice spropositi, fa morire gli ammalati e in molti casi opera il Carnevale moribondo, facendolo morire. Don Nicola, a una ennesima minaccia di Pulcinella, che lo caccia di casa avendolo sorpreso con sua figlia, ritorna armato di fucile e spara tra le gambe del suocero, che alla fine sarà costretto a dare il suo consenso alle nozze. […] Nella canzone di Zeza Pulcinella è padre con tutte le negatività addossate al padre carnevalesco (geloso, vile, repressivo), ed è anche l’immagine del Carnevale stesso, al quale si fa il tradizionale funerale”, come già detto.
Sigismondo Nastri (da: mondosigi)
Source: Positanonews
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