Riprendiamo in toto il saggio del prof Pier Luigi Leone De Castris, pubblicato su NAPOLI NOBILISSIMA nel 2018, in quanto di estremo interesse per una storia medievale della scultura in Penisola Sorrentina Amalfitana, alla luce dei costituendi Musei Diocesani e per la precisione dei raffronti e segnalazioni delle fonti di Massa Lubrense e dei suoi tesori.
Fino a qualche anno fa sembrava che l’attività meridionale del grande scultore senese Tino di Camaino – vero protagonista della svolta in chiave moderna e toscana della scultura in marmo nella Napoli angioina – si fosse in qualche modo ‘fermata’ a Cava de’ Tirreni, sede di importanti sue opere databili fra il 1329 e il 1331, e non fosse giunta a toccare i pur ricchi centri della penisola sorrentina e amalfitana1 . Un’attività, la sua al Sud, d’altronde prevalentemente napoletana; un’attività strettamente legata in massima parte alle commesse di sepolcri, Madonne e altari in marmo a lui rivolte in primis dalla famiglia reale angioina, da re Roberto, dalla moglie Sancha e dal figlio Carlo di Calabria – ch’erano stati d’altronde, e con ogni probabilità, i promotori del suo trasferimento da Firenze a Napoli come ‘scultore di corte’ nel 13242 – e in seconda battuta, a quanto sembra, dai principali esponenti della corte e della più stretta cerchia dei sovrani, come gli arcivescovi di Napoli Annibaldo Caetani e Giovanni Orsini, il protonotario e logoteta del regno Bartolomeo di Capua o l’arcivescovo di Salerno Orso Minutolo3 ; senza dire che anche la sua presenza e la sua cospicua attività nella citata abbazia di Cava de’ Tirreni, al servizio – diceva un’epigrafe oggi perduta e trascritta a fine Settecento dal de Blasi – dell’abate Filippo de Haya, in carica dal 1316 al 1331, non sembrano d’altronde essere cose estranee a questo suo ruolo di ‘scultore di corte’, con ogni probabilità spiegabili anzi, come ha giustamente rilevato Francesco Aceto, sulla base del peso a corte «dell’influente fratello di Filippo, Giovanni de Haya, reggente della curia della Vicaria, dal 1329 in rapporti stretti con lo scultore senese quale responsabile amministrativo della costruzione della Certosa di San Martino e del castello di Belforte»4 . Da qualche anno in qua, tuttavia, si è visto che questa immagine così tanto ‘napoletana’ e così esclusivamente legata al ruolo di Tino in città e a corte non è forse del tutto rispondente al vero, che qualche deroga dové forse esserci, e soprattutto – per quello che qui più ci interessa – che le vivaci cittadine della penisola sorrentina e amalfitana doverono ricevere qualche opera di mano dello scultore senese in persona, e non solo della sua bottega o dei tanti scultori locali del suo seguito. Nel 2004, ad esempio, Antonio Braca ha illustrato per la prima volta un bel frammento di fronte di sarcofago coi Santi Giovanni Battista e Matteo (fig. 2) – in realtà già segnalato come opera di Tino dal Toesca nel 19515 – conservato nella sacrestia della chiesa del convento francescano di Sant’Antonio ad Amalfi (oggi trasformato in Hotel Luna), ipotizzando, sulla base di un’iscrizione mutila che lo accompagna, che esso fosse stato commissionato allo scultore senese dal frate francescano del luogo Michele Cardine6 . Nel 2009 Aceto ha riferito a Tino in persona un rilievo con un San Pietro conservato nella chiesa di San Pietro a Monticchio (fig. 3c), un casale di Massa Lubrense, giustamente supponendolo parte di uno smembrato trittico in marmo con la Madonna e il Bambino, san Giovanni Battista e san Pietro del quale sino a quel momento si conoscevano i primi due pannelli, l’uno murato sulla facciata della chiesa di Santa Maria di Castello a Castrovillari, in Calabria (fig. 3b), e il secondo già in collezione Loeser a Firenze ed ‘emigrato’ negli anni Cinquanta prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, in collezione Alana a Newark (fig. 3a)7 . E nel 2011, infine, lo stesso Aceto ha pubblicato una piccola Madonna col Bambino in legno intagliato e dipinto conservata nella chiesa di Santa Maria del Principio a Ponteprimario, una frazione di Maiori (fig. 8), attribuendo anche quest’ultima scultura – raro esempio di un prodotto di natura cultuale, destinato alla devozione privata, e per di più appunto in legno – alla mano di Tino8 . Sebbene il San Pietro di Monticchio – indipendentemente dal quesito su quale fosse poi la sua collocazione originaria – sia a mio avviso il pannello del trittico oggi smembrato in cui più forte si sente la presenza d’un aiuto di bottega9 , e sebbene l’iscrizione col nome di fra’ Michele Cardine sul rilievo di Amalfi sia in realtà frutto di un riutilizzo d’epoca più tarda10, ci sono oggi dunque le tracce e le condizioni per ipotizzare che un’attività di Tino per e forse nei territori della penisola e della costiera vi sia stata, e per introdurre dunque con fiducia la discussione di un pezzo di notevole qualità proveniente per l’appunto da una chiesa dell’attuale diocesi di Sorrento e questa volta riferibile – io credo – senza dubbi o incertezze alla mano stessa del grande artista senese. Si tratta di una Madonna col Bambino in marmo alta 67 centimetri, appartenuta alla chiesa di Santa Maria della Misericordia, nel casale omonimo di Massa Lubrense non distante da Monticchio (fig. 4), ed oggi conservata in un deposito di sicurezza a cura della locale parrocchia; una scultura fin qui rimasta del tutto estranea alle ricerche e alla bibliografia su Tino di Camaino, ma non del tutto ignota agli studi, se nel 1917 Riccardo Filangieri ne pubblicava una piccola immagine nel suo Sorrento e la sua penisola, definendola – non senza una qualche ragione – come una «statuetta della scuola dei Pisani»11; e se un’altra immagine – questa volta un particolare del busto – è comparsa più di recente sulla copertina di una pubblicazione del locale Archeoclub, accompagnata da un più puntuale riferimento al nome di Tino di Camaino in persona12. Realmente questa squisita e falcata Madonnina ha qualcosa a che fare con i più celebri e antichi esemplari in marmo, o anche in avorio, prodotti a cavaliere fra Due e Trecento da Giovanni Pisano, da quelli ora nel Museo dell’Opera del Duomo e nel Museo Nazionale di San Matteo a Pisa a quello realizzato nel 1306 per l’altare della Cappella degli Scrovegni a Padova, in genere caratterizzati da una rispondenza altamente gotica di linee curve e insieme da un gioco di intensi e teneri sguardi fra la Madonna ed il Bambino13; e ancor di più essa ha a che fare, nella resa più lieve dei panni sovrapposti, nell’eleganza più languida e nella natura più larga e pingue del Bambino, con le altre Madonne isolate, stanti e a figura intera, in rilievo o a tutto tondo, prodotte da Tino a Napoli, come quelle dell’Ashmolean Museum di Oxford, della chiesa di San Pietro a Fondi, del Detroit Institute of Arts o della basilica di Santa Caterina a Galatina (fig. 9)14. Rispetto a queste ultime, tuttavia, la sin qui trascurata Madonnina di Massa Lubrense tiene in braccio il Bambino con ancor più meditata tenerezza, e gli porge con la destra una melagrana, mentre quest’ultimo tiene con la sinistra non un uccello – come negli altri casi – ma appunto la melagrana stessa, simbolo della Passione, laddove con la destra afferra arditamente un lembo del velo della madre.
E quando poi si esce dalla dimensione dei meri confronti tipologici, si vede bene che la nostra nuova Madonna si rapporta assai bene, più ancora che alle primissime opere realizzate a Napoli dall’artista senese per la corte angioina, come le statue e i rilievi delle tombe di Caterina d’Austria in San Lorenzo Maggiore e specie di Maria d’Ungheria in Santa Maria Donnaregina – dove compare, per l’appunto, una notevole Madonna col Bambino, questa volta in trono –, alle sculture da lui prodotte nel corso dei primi anni trenta del Trecento, come la Giustizia un tempo parte delle tombe forse di Carlo Martello nel Duomo di Napoli (fig. 10) e le altre Madonne, alcune delle quali d’altronde or ora citate, degli Staatliche Museen di Berlino (fig. 6), della Badia di Cava (fig. 5) – parte dello smembrato monumento sepolcrale dell’abate Filippo de Haya –, dell’Institute of Arts di Detroit e del Victoria and Albert Museum di Londra, dell’Ermitage di San Pietroburgo, del Fogg Museum presso la Harvard University di Cambridge (Mass.) e della Hyde Collection a Glenn Falls (fig. 12), delle chiese di Santa Caterina a Galatina (fig. 9) e di Santa Maria del Castello a Castrovillari (fig. 3b), del sepolcro dell’arcivescovo di Salerno Orso Minutolo nel Duomo di Napoli, dell’anconetta in rilievo per Sancha di Maiorca oggi alla National Gallery di Washington (fig. 13) e del trittico delle collezioni del Monte dei Paschi a Siena (fig. 11), in genere caratterizzate da una maggiore elongazione della figura, da una proporzione più ridotta della testa rispetto al corpo e da un certo schiacciamento e riduzione della tridimensionalità della figura come dentro a un più ristretto palcoscenico15. Secondo la tradizione locale la chiesa di Santa Maria della Misericordia sarebbe per altro di fondazione solo quattrocentesca, secondo lo storico seicentesco Giovan Battista Persico in origine fondata dalla sua famiglia e poi dal 1523 passata agli agostiniani; e la sua facciata, inoltre – sulla quale la Madonna di Tino un tempo si trovava – è per di più frutto di rifazioni seicentesche e ottocentesche16. Non è facile perciò capire se la nostra scultura appartenesse in origine allo stesso edificio, un po’ più antico dunque di quanto le fonti non ricordino, ovvero (e meglio) se essa – obiettivamente di piccole dimensioni e non difficile da trasportare – provenisse da un altro monumento della stessa Massa o di qualche centro vicino e fosse poi stata collocata sopra al portale della chiesa della Misericordia, o nel corso del suo restauro del 1613 o addirittura e con maggiore probabilità in tempi ancor più recenti, ad esempio in occasione degli altri restauri del 1894. In particolare è di un qualche interesse che nel 1685 la visita pastorale di monsignor Giovan Battista Nepita agli edifici sacri della diocesi di Massa non faccia menzione alcuna di questa statuetta nella citata chiesa di Santa Maria della Misericordia, ma di contro descriva un «simulacrum lapidis Beatae Virginis detinentis infantem Iesum in brachio sinistro» allora posto sull’altare della vicina chiesetta o cappella di San Sergio; ed è inoltre di un qualche interesse che in questa chiesetta – costruita a detta dello stesso Nepita in antico dall’altra famiglia locale degli Starace – il prelato in visita ricordasse a quella data anche un dipinto murale di probabile età angioina, una «icon […] depictus in pariete, et repraesentat in medio Beatissimam Virginem detinentem suum Sanctissimum Infantem in ulnis, a dextris Sanctos Sergium et Baccum, et a sinistris Sanctos Apoleum et Marcellum, a parte superiori adest misterium Sanctissimae Annunciationis, opus antiquam, et ut dixerunt Gallicum»17. È probabile che proprio questa fosse dunque l’ubicazione originaria della nostra Madonnina di Tino; così come d’altronde è probabile che il sarcofago già più volte citato e oggi murato nell’Hotel Luna ad Amalfi, prima ancora d’essere riutilizzato e dotato d’un’iscrizione – tra Quattro e Cinquecento – dal frate Michele Cardine, fosse stato in realtà commissionato e realizzato sin dall’origine, e cioè nei primi anni trenta del Trecento, proprio per quel complesso, e cioè per l’antico convento francescano di Sant’Antonio di Padova, che in quello stesso periodo, dal 1331 in avanti, era stato scelto come sua sede e abitazione dall’insigne teologo scotista ed arcivescovo francescano del luogo Landolfo Caracciolo, membro d’una famiglia napoletana d’antica origine e di provata fedeltà angioina, autore di sermoni e di un commento alle Sentenze di Pietro Lombardo dedicato al sovrano Roberto d’Angiò, il quale, rientrato a Napoli dai suoi studi parigini attorno al 1320 e dopo un breve soggiorno nel convento e Studio francescano di San Lorenzo Maggiore – dove Tino nel 1324 intanto realizzava la sua prima opera napoletana –, sarebbe stato nominato nel 1327 vescovo di Stabia e nel 1331 arcivescovo di Amalfi e sarebbe infine divenuto dopo il 1343 consigliere, logoteta e protonotario della nuova regina Giovanna I d’Angiò18. Non più singoli casi isolati, dunque, il sepolcro di Amalfi (fig. 2), la Madonna in marmo di Massa (fig. 4), quella lignea di Ponteprimario (fig. 8) e forse anche il San Pietro di Monticchio (fig. 3c) finiscono così col costituire una rete di presenze ‘tiniane’ su uno stesso e limitato territorio; e finiscono perciò col rappresentare, saldandosi l’una con l’altra, un indizio concreto d’un’altra area di azione e di attività per il più grande e moderno scultore della Napoli angioina.
Note
1 Su Tino di Camaino a Napoli si veda almeno E. Bertaux, Santa Maria di Donna Regina e l’arte senese a Napoli nel secolo XIV, Napoli 1899, pp. 123-140; W.R. Valentiner, Observations on Sienese and Pisan Trecento Sculpture, in «The Art Bulletin», IX, 1927, pp. 177-180; E. Carli, Tino di Camaino scultore, Firenze 1934, pp. 37-46 e passim; L. Becherucci, Marmi di Tino di Camaino, in «Bollettino d’arte», s. III, XXVIII, 1934 (1935), pp. 313-322; W.R. Valentiner, Tino di Camaino. A Sienese Sculptor of the Fourteenth Century, Paris 1935, pp. 83-143; O. Morisani, Nota su Tino di Camaino a Napoli, in «L’Arte», n.s., XI, 1940, pp. 189-197; Idem, Tino di Camaino a Napoli, Napoli 1945; Idem, Tino a Cava dei Tirreni, in «La critica d’arte», s. III, VIII, 1949, 28, pp. 104-113; R. Causa, Precisazioni relative alla scultura del ’300 a Napoli, in Sculture lignee nella Campania, cat. mostra, Napoli 1950, a cura di F. Bologna, R. Causa, Napoli 1950, pp. 66-73, 91-95; P. Toesca, Storia dell’arte italiana, II, Il Trecento, Torino 1951, ed. cons. Torino 1971, pp. 265-269; O. Morisani, L’arte di Napoli nell’età angioina, in Storia di Napoli, III, Cava dei Tirreni 1969, pp. 620-631; E. Carli, Gli scultori senesi, Milano 1980, pp. 17-18; P. Leone de Castris, Arte di corte nella Napoli angioina, da Carlo I a Roberto il Saggio, Firenze 1986, pp. 204, 211-212, note 88-89; G. Kreytenberg, Die Werke von Tino di Camaino, Frankfurt am Main 1987, pp. 10-12; F. Aceto, Per l’attività di Tino di Camaino a Napoli: le tombe di Giovanni da Capua e di Orso Minutolo, in «Prospettiva», 53-56, 1988-89, Scritti in ricordo di Giovanni Previtali, I, pp. 134-142; F. Negri Arnoldi, Sulla paternità di un ignoto monumento campano e di un noto sepolcro bolognese, in Skulptur und Grabmal des Spätmittelaters in Rom und Italien, a cura di J. Garms, A.M. Romanini, Wien 1990, pp. 431-438; F. Aceto, Tino di Camaino a Napoli, in «Dialoghi di Storia dell’Arte», I, 1995, 1, pp. 10-27; G. Chelazzi Dini, Un bassorilievo di Tino di Camaino a Galatina, ivi, pp. 28-41; Eadem, Pacio e Giovanni Bertini da Firenze e la bottega napoletana di Tino di Camaino, Prato 1996, passim; F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il Sud angioino e aragonese, Roma 1998, pp. 52-58; F. Aceto, La sculpture, de Charles Ier d’Anjou à la mort de Jeanne Ire (1266-1382), in L’Europe des Anjou. Aventure des Princes Angevins du XIIIe au XVe siècle, Paris 2001, pp. 79-84; Idem, Una proposta per Tino di Camaino a Cava dei Tirreni, in Medien der Macht. Kunst zur Zeit der Anjous in Italien, atti del convegno internazionale di studi, Frankfurt am Main 1997, a cura di T. Michalsky, Berlin 2001, pp. 275-294; G. Kreytenberg, Ein doppelseitiges Triptychon in Marmor von Tino di Camaino aus der Zeit um 1334, ivi, pp. 261-274; M. Amodio, La tomba di Enrico Sanseverino a Teggiano, in «Rassegna Storica Salernitana», n.s., XVIII, 2001, pp. 7-28; G. Chelazzi Dini, Due sculture della bottega napoletana di Tino di Camaino, in Scritti di storia dell’arte in onore di Sylvie Béguin, a cura di M. di Giampaolo, E. Saccomani, M. Gregori, Napoli 2001, pp. 35-46; F. Aceto, Tino di Camaino nel duomo di Napoli, in Il duomo di Napoli dal paleocristiano all’età angioina, atti della I giornata di studi su Napoli, Losanna 2000, a cura di S. Romano, N. Bock, Napoli 2002, pp. 148-155; A. Braca, Un bassorilievo di Tino di Camaino ad Amalfi, in «Rassegna del Centro di Cultura e Storia Amalfitana», n.s., XIII, 2003 (2004), pp. 143-161; F. Abbate, Teggiano, in Storia del Vallo di Diano, IV, Salerno 2004, pp. 27-30; T. Michalsky, Mater Serenissimi Principis: The Tomb of Maria of Hungary, in The Church of Santa Maria Donna Regina. Art, Iconography and Patronage in Fourteenth-Century Naples, a cura di J. Elliott, C. Warr, Aldershot-Burlington 2004, pp. 61-77; S. D’Ovidio, La Madonna di Piedigrotta tra storia e leggenda, in «Rendiconti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli», 74, 2006-2007, pp. 47-91; F. Baldelli, Tino di Camaino, Morbio Inferiore 2007, pp. 229-392; F. Aceto, in Scultura gotica senese. 1260- 1350, a cura di R. Bartalini, Torino 2011, pp. 183-211; V. Lucherini, Le tombe angioine nel presbiterio di Santa Chiara a Napoli e la politica funeraria di Roberto d’Angiò, in Medioevo: i committenti, atti del convegno internazionale di studi, Parma 2010, a cura di A.C. Quintavalle, Milano 2011, p. 477-504; G. Kreytenberg, Original und Replik: zum Werk von Tino di Camaino in Neapel, als auch Giotto dort 1328-1333 tätig war, in «Commentari d’arte», XIX, 2013 (2014), 54-55, pp. 39-44; S. D’Ovidio, Scultura lignea del Medioevo a Napoli e in Campania, Napoli 2014, pp. 45, 190-202; S. Paone, Santa Maria della Consolazione ad Altomonte. Un cantiere gotico in Calabria, Roma 2014, pp. 113, 120-128; R.M. Dessì, Les spectres du Bon Gouvernement d’Ambrogio Lorenzetti. Artistes, cités communales et seigneurs angevins au Trecento, Paris 2017, pp. 243-260; F. Aceto, S. D’Ovidio, P. Vitolo, in Architettura e arti figurative di età gotica in Campania, a cura di F. Aceto, P. Vitolo, Battipaglia 2017, pp. 11, 16, 32, 69, 73-78, 80, 84, 91, 96, 122, 130-135, 159, 162-163, 167, 170-177, 181-184, 193, 195-201, 204, 206, 215-216, 237-238, 242, 284, 291, 302-303, col rinvio ad altra bibliografia. Con ogni probabilità commissionata a Tino verso il 1333 e realizzata anch’essa a Napoli, per conto dalla moglie del conte di Marsico Enrico Sanseverino, dové essere anche la tomba di quest’ultimo che è oggi nel Duomo di Teggiano, in provincia di Salerno e nel Vallo di Diano, completata però in realtà inmassima parte dalla bottega dello scultore senese e montata in loco nel novembre del 1336, epoca in cui Tino era ormai morto, come recita un’iscrizione sul sepolcro che ricorda la traslazione in esso dei resti del conte, defunto molti anni prima, avvenuta in quella data. Su quest’opera si vedano almeno i lavori di Negri Arnoldi, Abbate e Amodio su citati, nonché F. Baldelli, op. cit., pp. 337-339, 345, 423- 424; F. Aceto, in Scultura gotica senese, cit., pp. 210-211, n. 45, con altra bibliografia. 2 Cfr. la bibliografia qui citata alla nota precedente, ed in particolare G. Kreytenberg, Die Werke von Tino di Camaino, cit., p. 7; F. Baldelli, op. cit., pp. 252-254; F. Aceto, in Scultura gotica senese, cit., p. 183. 3 Cfr. in particolare F. Aceto, Per l’attività di Tino di Camaino a Napoli, cit., pp. 134-142; Idem, Tino di Camaino nel duomo di Napoli, cit., pp. 151-153; Idem, Status e immagine nella scultura funeraria del Trecento a Napoli: le sepolture dei nobili, in Medioevo: immagini e ideologie, atti del convegno internazionale di studi, Parma 2002, a cura di A.C. Quintavalle, Milano 2005, pp. 597-607; Idem, in Scultura gotica senese, cit., pp. 188-189, 198-199, 203, 206; Idem, La committenza aristocratica nella Napoli angioina: il caso di Bartolomeo di Capua (1248-1328), in Medioevo: i committenti, atti del convegno internazionale di studi, Parma 2010, a cura di A.C. Quintavalle, Milano 2011, pp. 469-476. 4 F. Aceto, Per l’attività di Tino di Camaino a Napoli, cit., pp. 135-142; Idem, Una proposta per Tino di Camaino, cit., p. 282; Idem, in Scultura gotica senese, cit., pp. 189, 199. 5 P. Toesca, op. cit., p. 268. 6 A. Braca, Un bassorilievo di Tino di Camaino ad Amalfi, cit., pp.143- 161; ma cfr. anche Idem, Un bassorilievo di Tino di Camaino ad Amalfi, in Interventi sulla «Questione meridionale», a cura di F. Abbate, Roma 2005, pp. 31-36. Sul rilievo si veda ora anche F. Baldelli, op. cit., p. 345; F. Aceto, in Scultura gotica senese, cit., p. 206, n. 31; Idem e P. Vitolo, in Architettura e arti figurative, cit., pp. 75, 174, 284. 7 F. Aceto, in La collezione Salini. Dipinti, sculture e oreficerie dei secoli XII, XIII, XIV e XV, a cura di L. Bellosi, Firenze 2009, p. 107; ma cfr. anche Idem, in Scultura gotica senese, cit., p. 204, n. 26, con bibliografia. Su questo trittico si veda per altro anche più avanti a p. 6 e a nota 9. Sulla chiesa di San Pietro a Monticchio, invece, che è in ogni caso di fondazione medievale, si veda R. Filangieri di Candida, Storia di Massa Lubrense, Napoli 1910, pp. 577-582. 8 F. Aceto, in Scultura gotica senese, cit., p. 202, n. 20; sulla quale si veda in seguito S. D’Ovidio, Scultura lignea del Medioevo, cit., pp. 44- 45, 119; e P. Vitolo, in Architettura e arti figurative, cit., p. 284. 9 Su questo trittico smembrato e i vari pannelli che un tempo ne facevano parte si veda più complessivamente Inventario degli oggetti d’arte d’Italia, II. Calabria, a cura di A. Frangipane, Roma 1933, p. 159; C.L. Ragghianti, La mostra di scultura italiana antica a Detroit (U.S.A.), in «La critica d’arte», III, 1938, p. 171; O. Morisani, Tino di Camaino a Napoli, cit., p. 125, nota 2; G. Carandente, Due contributi per la scultura trecentesca in Calabria, in «Belle arti», 1951, p. 24, nota 5; Catalogue of old master paintings including the property of the late Charles Loeser, Sotheby’s London, London 8 december 1959, p. 45, n. 165; F. Negri Arnoldi, Scultura trecentesca in Calabria, apporti esterni e attività locale, in «Bollettino d’arte», s. VI, LXVIII, 1983, 21, pp. 5-6, 8, fig. 12, 45, nota 13; M. Seidel, Tino di Camaino: le relief de l’ancienne collection Loeser, in «Prospettiva», 53-56, 1988-89, Scritti in ricordo di Giovanni Previtali, I, pp. 129-133; Idem, Das ‘gemeisselte Bild’ in Trecento. Ein neu entdecktes Meisterwerk von Tino di Camaino, in «Pantheon», XLVII, 1989, pp. 8-9, 12, note 16-17; G. Trombetti, Castrovillari nei suoi momenti d’arte, Castrovillari 1989, pp. 26-27; V. Pace, Apulien, Basilicata, Kalabrien, Darmstadt 1994, p. 407; F. Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale. Il Sud angioino e aragonese, cit., p. 93; F. Aceto, La sculpture, cit., p. 82; Idem, Una proposta per Tino di Camaino, cit., p. 279; G. Kreytenberg, Ein doppelseitiges Triptychon, cit., p. 266; Idem, in Italian Sculpture from the Gothic to the Baroque, Salander-O’Reilly Galleries, catalogo della mostra, New York 2002-2003, a cura di A. Butterfield, A. Radcliffe, New York 2002, pp. 24-27; G. Leone, in Obras-primas da Calábria. 700 anos de arte italiana, catalogo della mostra, São Paulo 2005, a cura di S. Abita, G. Leone, R. Vodret, São Paulo 2005, pp. 43-44; F. Baldelli, op. cit., pp. 321, 385, 420-421; F. Aceto, in La collezione Salini, cit., p. 107; L. Cavazzini, in The Alana Collection. Newark, Delaware, USA. Italian Paintings from the 13th to 15th century, a cura di M. Boskovits, Firenze 2009, pp. 206-208; P. Leone de Castris, in Sculture in legno in Calabria dal Medioevo al Settecento, catalogo della mostra, Altomonte 2008-2009, a cura di P. Leone de Castris, Napoli 2009, pp. 27-28, 39, nota 18; F. Aceto, in Scultura gotica senese, cit., pp. 190, 192, nota 23, 204, n.26; S. Paone, op. cit., p. 142; P. Vitolo, in Architettura e arti figurative, cit., pp. 296-297; con pareri anche discordi riguardo l’attribuzione o, in tempi più moderni, sul diverso grado di autografia e di partecipazione della bottega di Tino al lavoro; con l’ipotesi, quanto all’ubicazione originaria, che la presenza del pannello con la Madonna a Castrovillari possa spiegarsi con una commessa da parte del feudatario del luogo Matteo Sambiase, che nel 1337 risiedeva a Napoli in qualità di gentiluomo di camera del duca di Calabria (Trombetti, Leone); e col rinvio ad altra bibliografia. 10 In proposito cfr. gli interventi di Baldelli e Aceto qui citati a nota 6, a correzione dell’ipotesi di Braca. 11 R. Filangieri di Candida, Sorrento e la sua penisola, Bergamo 1917, pp. 104, 110; che nel testo aggiunge: «Notevole è, nella stessa chiesa [di Santa Maria della Misericordia], una statuetta terzina della Madonna col bambino tra le braccia, entrambi redimiti di corona gigliata; opera del tempo angioino, piuttosto rozza, ma che serba ancora tardi caratteri dell’arte che fa capo a Nicola de Apulia». Immutato è il passo e stesse sono le pagine nella seconda edizione di questo testo, Bergamo 1929. Qualche anno prima, invece, il medesimo studioso (R. Filangieri di Candida, Storia di Massa Lubrense, cit., p. 563) aveva definito la Madonnina, descrivendola sopra il portale d’ingresso della chiesa della Misericordia, «forse degli inizi del XV secolo». La scultura misura cm 67 d’altezza per 27 di larghezza e 22 di spessore. L’esposizione all’esterno e una vecchia pulitura ne hanno condizionato l’aspetto e lo stato di conservazione. Solo qualche traccia della policromia che, almeno in parte, doveva ricoprirla è visibile nella parte interna del velo della Vergine. La parte retrostante, sebbene presenti un lieve e bel panneggio del velo stesso, è più abbozzata e dà l’impressione che la statua sia stata concepita per un alloggiamento in nicchia o comunque per una condizione di minore visibilità del retro. Sulla corona della Vergine vi sono tracce di fori di alloggiamento forse per elementi metallici o in vetro, e una placchetta romboidale pure forse metallica, anch’essa perduta, doveva fare da fibbia al mantello. Ringrazio don Pasquale Vanacore, responsabile dell’Ufficio Beni Culturali dell’Arcidiocesi di Sorrento-Castellammare di Stabia, e il parroco della Cattedrale di Massa, don Gennaro Boiano, per aver consentito e facilitato lo studio dell’opera, e Nicola Longobardi per l’aiuto fornito. 12 I beni culturali di Massa Lubrense: contributo alla conoscenza, a cura dell’Archeoclub d’Italia, Castellammare di Stabia 1992. Per altro nei vari scritti che compongono questo catalogo apparentemente non v’è traccia o menzione dell’opera in oggetto. 13 Sulle quali Madonne si vedano in sintesi E. Carli, Giovanni Pisano, Milano 1966, pp. [6-7], tav. X; M. Seidel, Padre e figlio. Nicola e Giovanni Pisano, Venezia 2012, I, p. 371, II, pp. 330, fig. 315, 372, fig. 357; K. Hohenfeld, Die Madonnenskulpturen des Giovanni Pisano: Stilkritik, Kulturtransfer und Materialimitation, Weimar 2014, pp. 12, 35-37, 88-90 e passim. 14 Sulle quali Madonne si vedano in sintesi gli interventi di Leonede Castris (1986), di G. Chelazzi Dini (1995), di F. Baldelli (2007) e di F. Aceto (in Scultura gotica senese, cit., pp. 202, 207, 211, nn. 19, 21, 33, 46) qui citati a nota 1, col rinvio ad una più ampia bibliografia. 15 Cfr. in breve F. Aceto, in Scultura gotica senese, cit., pp. 200, 201, 203, 204, 205, 207, 208, 211, nn. 11, 17, 22, 26, 27, 30, 32, 33, 36, 37, 38, 39, 46, con bibliografia precedente. 16 Cfr. G.B. Persico, Descrittione della città di Massa Lubrense, Napoli, Francesco Savio, 1644, cap. XVI, p. 83; R. Filangieri di Candida, Storia di Massa Lubrense, cit., pp. 561-563; che, oltre alla data iscritta sul portale, il 1613, ricordava nel 1910 restauri alla facciata nel XVIII e XIX secolo, e anche recenti. Sull’architrave del citato portale un’altra scritta riferisce questi ultimi restauri al 1894. Nella nicchia sopra l’architrave che ospitava la scultura, poco profonda, vi sono tracce d’un affresco; circostanza che farebbe pensare come nel 1613 e nel momento in cui il portale veniva realizzato la sculturina ancora non ci fosse, molto più probabilmente aggiunta dunque nel 1894. 17 Archivio dell’arcidiocesi di Sorrento-Castellammare di Stabia, sede di Sorrento, Fondo Sante Visite, Registrum Sanctae Visitationis Civitatis Diocesis Massae Lubrensis coeptum anno 1685, sub Praesulatu Illustrissimi et Reverendissimi Domini Ioannis Baptistae Nepita Civitatis Castrivillarum, Episcopi Massae Lubrensis et olim Episcopi Sancti Angeli Lombardorum…, cc. 52r-60r, 103v-104v; che, a proposito dell’affresco di San Sergio, ricorda anche come esso fosse stato danneggiato in modo sacrilego dai turchi nel corso dell’incursione del 1558. Riguardo alla descrizione della chiesa di Santa Maria della Misericordia, invece, preciso che Nepita menziona comunque in chiesa alcune immagini della Madonna, una delle quali anche sopra la porta, ma che il termine di «icona» con il quale le cita è da lui correntemente adoperato per descrivere opere pittoriche, e non scultoree. Ringrazio la dottoressa Chiara Gargiulo per la segnalazione. Sulla chiesa di San Sergio nel casale di Termini si veda R. Filangieri di Candida, Storia di Massa Lubrense, cit., pp. 47, 643-644, che nel 1910 la descrive come «antichissima cappella che risale forse al sec. XIV, dacché vi erano degli affreschi appartenenti, al dire del Nepita, all’epoca angioina». Sulle vicende storiche di Massa in età angioina vedi, nello stesso testo, alle pp. 140-165. Una possibilità alternativa a quella d’un’ubicazione originaria nella chiesetta di San Sergio potrebbe essere quella d’una provenienza invece dalla vicina abbazia benedettina di San Pietro a Crapolla, della quale – ma in anni precedenti a quelli della nostra scultura – era stato abate Filippo de Haya, in seguito trasferitosi a Cava e lì, come s’è detto, committente appunto di Tino di Camaino (cfr. A. Perriccioli Saggese, Fra la badia e la corte: la committenza libraria di Filippo de Haya, abate di Cava e familiare del re, in Il libro miniato e il suo committente. Per la ricostruzione delle biblioteche ecclesiastiche del Medioevo italiano (secoli XI-XIV), a cura di T. D’Urso, A. Perriccioli Saggese, G.Z. Zanichelli, Padova 2016, pp. 181-200). 18 Su Landolfo, morto nel 1351, cfr. M. Camera, Memorie storico-diplomatiche dell’antica città e ducato di Amalfi, Salerno 1876-1881, I, pp. 538 e ss.; II, p. 485; G. Petriella, Il primo scotista meridionale: Landolfo Caracciolo, in «L’Oriente serafico» XXII, 1910, pp. 74-79; G. Celoro Parascandolo, Castellammare di Stabia, Napoli 1965, pp. 103, 106; G. Mascia, Landolfo Caracciolo Rossi da Napoli (+1351) e Leonardo de’ Rossi da Giffoni (+1407), Napoli 1966; G. D’Andrea, I frati minori napoletani nel loro sviluppo storico, Napoli 1967, pp. 46, 83, 85-91, 94, 553; W. Grocholl, Der Mensch in seinem ursprünglichen Sein nach der Lehre Landulfs von Neapel, München-Paderborn-Wien 1969; M. Palma, Caracciolo, Landolfo, in Dizionario biografico degli italiani, XIX, Roma 1976, pp. 406-410; G. Imperato, Amalfi nella storia religiosa e civile dalle origini al XVII secolo, Amalfi 1987, pp. 296-302; G. Celoro Parascandolo, I Vescovi e la Chiesa Stabiana. 1. Dalle origini al 1800, Castellammare di Stabia 1997, pp. 105-108; S. Amici, La Chiesa di Amalfi. Quattordici secoli di storia nella cronologia dei suoi Pastori, Amalfi 2006, pp. 105-112, col rinvio a una vasta bibliografia precedente. Per un suo possibile ruolo di committente di sculture, in questo caso lignee, e di tramite – anche sotto il profilo del gusto e delle scelte artistiche – fra Napoli, la corte, il cenacolo francescano di San Lorenzo Maggiore e le sedi della sua attività episcopale cfr. ora P. Leone de Castris, Sculture in legno medioevali nella penisola sorrentino-amalfitana, in corso di pubblicazione, capitolo 6. Sulla dimora del vescovo Caracciolo nel convento di Sant’Antonio ad Amalfi cfr. in particolare e in ultimo S. Amici, op. cit., p. 108.
Source: Positanonews
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